La vulnerabilità è diventata un discorso di spicco nell’etica, la filosofia politica e la teoria femminista. Parola abituale nelle science sociali è vincolata ai cosiddetti gruppi vulnerabili. Di recente, ha apparso in alcuni documenti di bioetica come qualità universale di esposizione e dipendenza che appartiene a qualsiasi essere umano. L’obbiettivo di questa contribuzione è quello di proporre una revisione del concetto di vulnerabilità come carattere della vita umana per eludere quello che la filosofia femminista Adriana Cavarero chiama il teorema della violenza. Come parlare ancora della vulnerabilità della vita umana senza riprodurre una scena composta dal soggetto belligerante e il suo corollario della vittima?
Cavarero cerca di fornire una risposta per ricorso a una rivisitazione della storia della filosofia politica ed attraverso un’analisi etimologico della parola vulnerabilità. La figura che ci interessa qui è quella di Thomas Hobbes. Nel suo pensiero, legge Cavarero, la vulnerabilità dell’individuo e dello stato venne collegata alla mortalità e alla esposizione all’uccisione. In questo primo senso, vulnerabilità è esposizione di fronte alla violenza, dalla ferita fino alla morte. L’essere vulnerabile è l’essere mortale della esposizione all’uccisione. La scena composta dai significati della uccisione, la mortalità e la vulnerabilità ci sporta verso un primato della violenza nel lessico politico e, molto in particolare, in quello della sovranità. In questa scena il soggetto belligerante e la minaccia di morte vengono naturalizzate come possibilità che appartengono alla propria condizione umana di vulnerabilità.
Nonostante, la etimologia del termine vulnerabilità rivela essere più ricca per Cavarero. Dal latino «vulnus», ferita, questa condizione di esposizione appare legata alla pelle. A partir di questo etimo il vocabolo vulnerabilità prende due sensi primordiali. Il primo è la lacerazione della pelle, la rottura traumatica del derma. Fin qui nulla sarebbe diverso a Hobbes, ma il discorso diventa altro dopo mettere l’accento sulla pelle. Cavarero riesce a fornire una congettura che a partire della radice «vel*». Sotto questo riferimento il «vulnus» riporterebbe alla nudità della pelle. Questa, in quanto nuda e senza capelli, è esposizione radicale all’esteriorità. Nel secondo senso del «vulnus» venne legato alla apertura all’altro e all’estero. Il corpo umano non è più esposto alla ferita violenta e dimostra la sua condizione di inerme. Senza armi il soggetto belligerante sparisce e l’archetipo dell’umana vulnerabilità non è più la vittima, ma il inerme. Quando la vulnerabilità dell’inerme entra in scena, il guerriero, segno indiscutibile di mascolinità, si allontana dalla scena archetipica umana. La vulnerabilità come condizione universale umane diventa così strana alla mortalità e alla uccisione.
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